mercoledì 11 giugno 2008

Napoli e i napoletani sono imbelli,rassegnati e privi di senso civico?


Anche oggi decidiamo di dare spazio ad opinioni altrui sul nostro blog.
Pubblichiamo come post un articolo che secondo noi è l'analisi e la riflessione sulla nostra città più bella e migliore che sia stata scritta negli ultimi anni.
Ecco di seguito l'articolo in questione....

Napoli, un dramma nazionale
di Ermanno Rea (da il Manifesto, 11-06-2008)

Non cerco d'abitudine la vetrina giornalistica. Capita però talvolta di avere qualcosa da dire, qualcosa che ti pesa dentro e pretende ascolto. Allora bisogna farsi coraggio e chiedere un po' d'attenzione. Essendo nato a Napoli, ho scoperto improvvisamente quanto sia difficile oggi portarsi dietro il peso di questa etnia. «Sei napoletano? Ma allora mi sai dire che cosa succede dalle tue parti? Possibile che in quella città non vi sia più una borghesia degna di essere chiamata tale? Una società civile capace di qualche protesta? Una guida morale e intellettuale purchessia? Possibile che siate tutti così imbelli e rassegnati, oltre che indisponibili a quei sacrifici cui ogni comunità dotata di un minimo di senso civico sa di non potersi sottrarre?»
Non ne posso più. La requisitoria, non so se promossa ma sicuramente amplificata da alcune «autorevoli firme» che ne hanno fatto oggetto di una petulante polemica, tende a farsi sempre più luogo comune. Non credo di esagerare: mille fantasmi sembrano agitare di colpo il fondo torbido del nostro Paese. Fantasmi dei quali sinora mi era sfuggita l'esistenza ma che probabilmente covavano nascosti da qualche parte dell'inconscio collettivo e che un improvviso colpo di vento - come chiamarlo diversamente? - ha ridestato dal letargo.
Preciso che non mi riferisco alle nevrosi del leghismo dilagante, bensì a ....( per continuare clicca su ("leggi tutto"))un più vago ed esteso sentire che anzi pretende una sua innocenza, una sua onestà indenne da ogni forma di razzismo. Anche se per me di razzismo si tratta, di razzismo inconsapevole, se si può dire così, che affiora perfino alle labbra di amici e conoscenti, persone che pensavi di conoscere a fondo e che invece conoscevi soltanto in parte (forse perché loro stesse si conoscevano soltanto in parte). Chiarisco. Mi sconcertano non tanto le critiche in se stesse (sono il primo ad affermare che a Napoli non esiste più una classe dirigente degna di questo nome, che il degrado sociale è spaventoso e la cosiddetta società civile - che pure esiste, porca miseria, e spesso sa essere eroica - vive ore amare, difficilissime). Mi sconcerta il modo con il quale queste critiche vengono formulate: come se il problema non riguardasse minimamente chi parla e accusa. Come se Napoli non fosse un pezzo d'Italia ma il lembo reietto di un oscuro territorio confinante. «Vedi - ho detto alcune sere fa a un maturo intellettuale, già parlamentare di estrema sinistra, - tu metti sotto accusa Napoli usando più o meno i miei stessi argomenti. Soltanto che ne parli con sufficienza e distacco, considerando quella città un ignobile altrove, mentre io ne parlo con l'ira e il dolore di un italiano che si sente personalmente ferito. E dico italiano perché per me quello che sta andando in scena a Napoli è prima di tutto un dramma nazionale, che ci riguarda tutti, che investe responsabilità politiche di ogni genere, vicine e lontane, e non soltanto una 'sporca faccenda' locale».
Come ha scritto recentemente su il manifesto Marco Revelli (venerdì, 6 giugno 2008), in poche settimane in Italia si va bruciando un intero patrimonio di civiltà giuridica e politica. Vale la pena citare testualmente le sue parole. «Lo sappiamo, purtroppo, per averlo visto infinite volte nel feroce Novecento: succede, è successo, succederà purtroppo ancora che un popolo, una nazione, un sistema istituzionale d'un colpo 'vadano giù'. Che perdano sé stessi. Il senso della misura...».
Il modo in cui viene generalmente percepito il caso Napoli mi pare un'ulteriore controprova di questa disfatta della ragione. Rimosso come problema estraneo al Paese nel suo insieme, esso tende sempre più a configurarsi (soprattutto a essere configurato dai mezzi di comuinicazione di massa) con i contomi dell'«anomalia» a mezza strada tra dramma e folklore. In ogni modo, come questione che non riguarda la coscienza del resto d'Italia in quanto i «non napoletani» sarebbero «un'altra cosa». Anzi, a giudizio di alcuni, sarebbero addirittura la virtù contrapposta al vizio (rammento qui di sfuggita la tendenza, espressa da qualche fantasioso interprete della «napoletanità», a ipotizzare l'esistenza di una sorta di naturale predisposizione alla protervia in taluni strati del popolo partenopeo, predisposizione risalente addirittura ai riti di Cerere che «celebrava i suoi saturnali a Piedigrotta, le sue feste dissipatrici nei palazzi dei principi, le sue vendette sanguinarie nei bassi...». Una predisposizione risalente insomma al mito e alla preistoria: quando si dice la mano di Dio, anzi di Satana).
Potrà nascere nulla di buono da tutto questo? È una domanda retorica, ovviamente: sono pessimista, benché non per vocazione. Lo sono perché quello che accade viene letto in maniera distorta e ingiusta. Perché tutti i più grandi maestri del pensiero politico, dall'unificazione nazionale in poi, hanno sostenuto che la questione meridionale non sarebbe stata mai risolta fino a quando non fosse diventata il cuore stesso del programma politico nazionale, il bersaglio collettivo numero uno, la sfida suprema, e questo non soltanto non è mai accaduto, ma è stato sempre deliberatamente contraddetto, ovviamente nei fatti se non nelle parole.
Ho tra le mani il discorso con il quale Giorgio Amendola, il 20 giugno del 1950, motivò alla Camera dei deputati le ragioni per le quali la sua parte politica si opponeva all'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Ne improvviso una brevissima sintesi che attesta l'impressionante attualità della tesi sostenuta. «Noi ci moviamo sopra il solido terreno della migliore tradizione meridionalista, che affermò sempre, con spirito profondamente unitario, il carattere nazionale del problema meridionale, da risolversi non con leggi speciali, non con soli lavori pubblici ma con un determinato indirizzo generale della politica nazionale... Ora voi, con il pretesto di dare mille miliardi (che non darete) cercate di creare un organismo che sarà un pericoloso strumento di corruzione e di asservimento delle popolazioni meridionali... I mille miliardi promessi non vi saranno mai, o non vi saranno tutti, ma vi sarà la Cassa che diventerà un nuovo cancro roditore della vita meridionale». Sono passati esattamente cinquantotto anni dal giorno in cui risuonarono a Montecitorio queste parole. Che còsa è cambiato, se non in peggio? Le profezie di Amendola si sono purtroppo avverate in maniera puntuale.
Il Sud è stato irrorato di denaro che è servito soltanto ad alimentare parossisticamente corruzione e malavita organizzata. Era quello che si voleva, no? E tuttavia, amici e conoscenti, e perfino intellettuali, scrittori e soprattutto opinionisti di fama non sanno fare di meglio che puntare indici accusatori contro la società civile di Napoli. Cornuti e mazziati, si dice dalle mie parti. Ma credo anche altrove. «Mazziati» infatti lo siamo un po' tutti, perché uno Stato che in sessantanni non è riuscito a realizzare il pieno controllo (anche economico, oltre che civile e politico) dell'intero territorio nazionale, e non è riuscito a debellare i centri di malavita organizzata, è uno Stato che ha fatto danni da tutte le parti.
Concludo. Tra i tanti fantasmi che si aggirano oggi in Italia vi è anche quello della sinistra che non c'è più. Si cerca un punto dal quale ripartire. Domando se questo punto non possa essere la stessa unità nazionale dell'Italia. La situazione esige una sorta di interiorizzazione del problema meridionale, in ogni caso il rilancio della sua centralità intesa come questione di vita o di morte. Ma i demoni trionfanti non ne vogliono sapere. Perché non partire, nella discussione, proprio da questa feroce contraddizione?

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7 commenti:

Anonimo ha detto...

Ecco, finalmente uno che dice le cose come stanno. Concordo pienamente e non è la prima volta con Il Manifesto che, si voglia o no, rappresenta e spero che rappresenterà sempre, una coscienza critica del nostro paese che non fa sconti a nessuno, nè a destra nè a sinistra.
Non dobbiamo vergognarci di essere napoletani, ne dobbiamo essere orgogliosi e se la situazione oggi è questa è colpa un pò di tutti noi che abbiamo creduto e affiancato una classe dirigente che si è dimostrata non degna dei nostri appoggi.
Speriamo, ormai non se ne può piu', che presto si cambi registro con nuove elezioni che, purtroppo credo, daranno la maggioranza a destra, ma dovranno avere la forza di ridare alla Campania una nuova classe dirigente di sinistra che tagli completamente con il passato, pronta a ripredenre le redini della nostra regione il piu' presto possibile. L'augurio alla Campania e ai Napoletani è quello che la sinistra non faccia strani accordi per vincere ma che invece si dia da fare per far nascere un nuovo progetto politico.

Anonimo ha detto...

io ci metterei un bel SI ...

Anonimo ha detto...

Più che all’interagire sono interessato all’agire. Chiacchierare e dissertare può certamente essere interessante e pure divertente, ma non è quello che mi manca: piuttosto mi aspetterei che in presenza di una evidente, costosa e dolosa inefficienza dell’amministrazione pubblica, i cittadini, (vista l’inefficacia del formale potere di delega) dessero luogo sinergicamente ad azioni idonee a responsabilizzare i “responsabili” e così risolvere questo problema, in modo che chi di dovere risolva anche tutti quelli che deve.

Una specie di democrazia partecipativa, conseguente ad una responsabilità partecipativa.

Vedo bene che ciò non avviene. Tra il dire e il fare c’è davvero un mare … di chiacchiere, di autoreferenzialità, una gran fiera delle vanità, sussiego e … una gran Cultura: paradossale nella sua inutilizzazione, tanto che ho pensato ad un “sovraccarico di cultura”. Su google c’è un neologismo che non prende abbastanza piede: ipocrazia.

Non credo che sia il caso che mi dilunghi: dopo aver dedicato tempo, soldi e idee a “costruire”, posso riassumere con alcuni aforismi, suggeritimi dalle “avversità” via via incontrate:

Le opportunità senza opportunismo sono valute senza corso legale

I politici non amano la democrazia quando temono di non poterla gestire

A furia di avere ragione si diventa antipatici

Ed altre che modero a zero; come le proposte, visto che in giro non se ne fanno, non se ne valutano, non se ne scelgono e soprattutto non se ne attuano. Quindi…mi giustifico: “Il mio niente vale più di quello degli altri”.

PS: se su qualche giornale ho scritto qualcosa era solo per verificarne l’accettazione o per “giocare”, ma so che comunque si finisce nello zibaldone generale e in un brodo primordiale, dove “tutti fanno scintille, ma nessuno accende il fuoco”. E così restiamo a digiuno … crudité a parte …

Anonimo ha detto...

@Giacomo Della Guardia
comprendo la sua frustrazione ma insisto... non bisogna lascaiarsi scoraggiare.

Anonimo ha detto...

Trovo stimolante la sua risposta, come del resto è capitato per l’appello lanciato da Pangea Blu.

Non considerando manieristiche le sue osservazioni, in merito ad esse devo esprimere alcune precisazioni. Come credo càpiti a molti, non mi ritengo né frustrato e tanto meno scoraggiato. Continuo ad ascoltare rassegne stampa e cerco in due-tre quotidiani (internet e altro a parte) quanto mi può interessare dei fatti, usi e costumi vari; osservo, valuto e decido se vale la pena di fare o non fare.

Frustrazione e scoramento dovrebbero semmai colpire coloro che hanno còmpiti e responsabilità nei confronti di comunità di persone, quando non riescono a provvedere. Che non ci riesca il cittadino ignoto (andrebbe proposto un monumento…) poco importa. Vado sul “drammatico”, ma il senso è ilare: non sono mie le tombe su cui i miei aforismi potrebbero fare da epitaffi.

Non sono un grafomane e non intendo spingerla a intrattenere una corrispondenza con un elemento esterno all’associazione; circa l’invito a scrivere sul suo blog, voglio precisare che, pur continuando a seguire il “fenomeno”, non sono interessato ad inserirmi su nessuno di quei numerosissimi posti informatici .
Giacomo Della Guardia

pinco pocchio ha detto...

Leggetevi la rubrichetta di Giorgio Bocca sul Venerdì di Repubblica di questa settimana.
Leggetela: fa' giustizia di tutti gli Ermanno Rea di questo mondo.
E non venite a dire che Bocca si è rincoglionito. Vi pice quando lancia strali contro i fascisti, i salotini e la nuova destra?
Bene, allora per coerenza, fatevelo piacere anche quando spara a zero su Napoli e i meridionali.
A prendre ou a laisser. In blocco.

Anonimo ha detto...

-Si può CAMBIARE Napoli? e come?-
Mi stupisce come tra le risposte non ci sia
"cambiare la mentalità delle persone".
In ogni intervista in Tv a cittadini e persone comuni noto sempre con maggior frequenza che ogni qual volta si chiedono opinioni o giudizi , il comune denominatore di ogni risposta è "che la colpa è dei politici, della camorra"....insomma sempre di qualcun altro.
Non lo trovo giusto!
Non credo che il modo giusto per risorgere sia quello di togliersi da dosso colpe attribuendole ad altri.
Certo la classe politica inconcludente ( indipendentemente dai colori politici ) , certo la criminalità che oramai è un cancro quasi indebellabile , ma forse non si pensa mai che la colpa è nostra.
Dal nostro piccolo possono nascere le rinascite, perdonatemi il gioco di parole.
Le grandi rivoluzioni i grandi cambiamenti , nascono sempre dal basso e prendendo esempio da eventi storici come la rivoluzione francese, dovremmo trasformarci tutti noi napoletani in tanti piccoli Robespierre, e ribellarci .
Probabilmente le mie parole resteranno per molti solo chiacchiere al vento, ma credo sempre più fermamente che è solo dalle persone e da un risveglio della coscienza ,che possa esserci un vero cambiamento.
Bisogna smetterla di dare sempre colpa a qualche altra persona, è comodo ed è soprattutto inutile.
Fino a quando non capiremo questo noi napoletani non saremo mai liberi, vivremo sempre nel limbo di mediocrità che ci siamo costruiti, eterni ostaggi della nostra cecità.

Roberto Migliaccio.